Come illustrato più approfonditamente in un nostro precedente contributo “Recesso Studio Associato: il quadro normativo civilistico e fiscale”, al recesso del socio dallo Studio Associato si ritengono applicabili, per analogia, gli artt. 2285 e ss. c.c., che disciplinano il recesso del socio dalla società semplice (e quindi da una società di persone in generale, in forza dei rinvii operati dagli artt. 2293 e 2315 c.c.).
L’associato che recede, pertanto, ai sensi dell’art. 2289 c.c. ha diritto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della sua quota, sulla base alla situazione patrimoniale della società (nel nostro caso: dello Studio) nel giorno in cui si verifica lo scioglimento (oltre al diritto/dovere di partecipare agli utili o alle perdite relative alle operazioni ancora in corso).
Rimandando ad un altro nostro precedente contributo“Criteri Di Valutazione Della Quota Di Uno Studio Associato In Ipotesi Di Recesso“ l’esame approfondito dei criteri per la valutazione della quota dell’associato che recede, mi limito in questa sede a sottolineare che un peso notevole nella valutazione/liquidazione è dato dalla valorizzazione dell’avviamento dello Studio.
Ci si chiede, quindi, se, a fronte della ricezione di una somma di denaro calcolata, appunto, anche sulla base dell’avviamento, l’associato receduto sia tenuto o meno ad un obbligo di non concorrenza nei confronti del “vecchio” Studio.
Va subito detto che manca una norma ad hoc.
In altri termini, il legislatore non pone, in capo al socio uscente, alcun divieto di concorrenza.
In giurisprudenza ci si è quindi chiesti se, alla fattispecie del recesso da una società di persone (nonché a quella simile della cessione di quota) sia possibile applicare in via analogica l’art. 2557 c.c., norma che disciplina la cessione d’azienda e che stabilisce che
Chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta.
Al riguardo, i giudici hanno tendenzialmente dato risposta negativa: questo perché la cessione di una quota è una fattispecie ontologicamente diversa dalla cessione di un’azienda (così, ad es. Cassazione sent. n. 6169 del 2004 e Corte di Appello di Brescia, sent. n.1213 del 2017).
Pronunce più recenti, però, hanno acutamente osservato che, in alcuni casi, la cessione di una quota molto rilevante comporta, in termini concreti, il cambiamento della governance della società e, quindi, dell’esercizio e della gestione dell’azienda della stessa.
Sulla base di questa considerazione, quindi, la Cassazione, nella sent. n. 14471 del 2014, ha precisato che
non è esclusa l’estensione analogica del citato art. 2557 c.c., all’ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società di capitali, ove il giudice del merito, con un’indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, accerti che tale cessione abbia realizzato un “caso simile” all’alienazione d’azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda.
Sulla stessa linea si è collocato il Tribunale di Bologna (sent. n. 172 del 21 gennaio 2019).
Seguendo questa linea interpretativa, si potrebbe quindi ipotizzare un divieto di concorrenza in capo all’associato receduto che fosse il referente di una “buona fetta” se non della quasi-totalità della clientela dello Studio e che abbia ricevuto una cospicua somma per la propria quota (calcolata, giova ribadirlo, soprattutto sulla base dell’avviamento dello Studio).
Detto pagamento, infatti, non avrebbe giustificazione se, a seguito del recesso, lo Studio venisse poi privato di gran parte dei clienti, “portati via” dall’ex associato.
Del resto, sempre la Cassazione, quando ha delineato il contenuto fondamentale del contratto (atipico) di trasferimento di uno Studio professionale, ha posto, a carico del professionista cedente, proprio il divieto di concorrenza (per un approfondimento al riguardo, si veda “Il Trasferimento Dello Studio E Il Patto Di Non Concorrenza“.
Non si può negare che il recesso del “socio pilastro” presenti, dal punto di vista concreto, forti analogie con la fattispecie del trasferimento dello Studio. Da un lato, infatti, sia il receduto che il cedente vengono pagati in relazione al valore dell’attività professionale; dall’altro vi sono soggetti il cessionario/gli associati rimanenti che iniziano a gestire i clienti del “vecchio” socio/del cedente.
In altri termini (pur col doveroso distinguo che il receduto non deve svolgere alcuna attività di canalizzazione della clientela a favore degli ex soci) in entrambi i casi, assistiamo ad un passaggio di consegne, a seguito del pagamento di una sorta di “buonuscita”.
Va in ogni caso segnalato che la giurisprudenza sopra citata, oltre che oscillante, si riferisce ad ipotesi di recesso/cessioni di partecipazioni in società: fattispecie certamente analoghe ma non perfettamente coincidenti con le vicende modificative delle compagini degli Studi Associati.
Pertanto, un divieto di concorrenza in caso di recesso del “socio pilastro” dello Studio Associato, sebbene a buon diritto ipotizzabile, non è, allo stato, da ritenersi pacifico.
L’unica strada, ad oggi, per poterlo configurare con certezza è quella della specifica previsione in sede di Statuto/atto costitutivo dello Studio Associato.
Ancora una volta, quindi viene alla luce l’importanza dello statuto nella vita di uno Studio Associato (sugli altri aspetti di tale importanza, si veda “STP Ed Associazioni Professionali: Attenzione Allo Statuto“.