La cessione dello studio professionale: la rateizzazione dei corrispettivi

Premessa

Abbiamo già avuto modo di evidenziare, in precedenti contributi (si veda ad esempio “Aggregazioni Tra Professionisti: Un Trampolino Di Lancio Per Il Futuro” e “La Cessione Dello Studio Professionale: Partita IVA Aperta Fino All’incasso Dell’intero Corrispettivo”), come l’aumento della concorrenza tra i professionisti e dalle maggiori esigenze della clientela (che richiede servizi sempre più complessi e specialistici), nonché l’ingresso della digitalizzazione negli studi professionali abbiano messo in crisi la storica propensione del professionista ad esercitare individualmente la sua attività.

Tale propensione, però, sembra ancora oggi resistere nell’esercizio della professione di commercialista (ma anche del consulente del lavoro).

Infatti, dai dati elaborati dalla Fondazione dei Dottori Commercialisti, e riportati nell’ultimo rapporto sull’Albo dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili per l’anno 2020, rilevano che l’attività professionale di dottore commercialista ed esperto contabile viene ancora prevalentemente svolta in modo individuale.

Non solo, il 63,2% degli iscritti rientrano nella classe dai 41-60 anni e gli over 60 hanno raggiunto circa il 19%.

Per tali motivi, nell’ottica della programmazione del naturale passaggio generazionale, il processo di aggregazione fra studi professionali costituisce insieme la condizione necessaria e la conseguenza diretta dell’operazione di cessione/acquisizione di uno studio professionale.

 

Come vengono strutturate in Italia le operazioni M&A di studi professionali?

Nella prassi italiana il trasferimento a titolo oneroso dello studio professionale, organizzato sotto forma di ditta individuale, avviene attraverso la stipula di un contratto preliminare ed un contratto definitivo, i quali contengono una serie di clausole che regolamentano la parte economico-

finanziaria dell’operazione, il trasferimento dei vari rapporti giuridici che compongono lo studio, nonché gli obblighi assunti delle parti.

Una delle clausole contrattuali più importanti è quella che regolamenta il periodo di affiancamento (più o meno lungo a seconda delle peculiarità di parte cedente) che ha il fondamentale scopo della canalizzazione del rapporto fiduciario al professionista subentrante.

Pertanto, appare evidente che per trasferire un’attività professionale dovrà esserci un’attività di canalizzazione e quindi queste operazioni non potranno che esplicare i propri effetti in un arco di tempo. Questo è il concetto su cui si basano le operazioni di cessione/aggregazione tra studi professionali ed è l’elemento che differenzia queste operazioni dalle operazioni M&A aziendali. Nell’M&A aziendale, solitamente, si sottoscrive un contratto preliminare subordinato alla realizzazione di una due diligence, al buon esisto di quest’ultima le parti non hanno più rapporti, si paga il prezzo e ciascuna va per la sua strada.

Nelle operazioni di studi professionali, una volta valutato il target, le parti iniziano un percorso assieme finalizzato alla canalizzazione della clientela, terminato il quale si dovrà andare a verificare quale parte della clientela abbia aderito a questo progetto e quindi determinare, alla fine del percorso, il valore effettivo della clientela trasferita.

Tecnicamente queste sono operazioni che possono essere definite a formazione progressiva ed esplicano i loro effetti non in un momento T0 ma in un arco di tempo.

Tutta la struttura dell’operazione è figlia di questo concetto.

Pertanto, anche la struttura finanziaria dell’operazione non potrà prevedere, a differenza delle operazioni M&A aziendali, il pagamento in un’unica soluzione ma un pagamento dilazionato nel tempo (di solito dai 3 ai 5 anni) e legato, inoltre, all’effettivo trasferimento della clientela.

 

Da un punto di vista fiscale quali sono i trattamenti della parte rateizzata?

Quali sono gli adempimenti in caso di decesso del professionista?

Partendo dal presupposto che la cessione del «pacchetto clienti» genera interamente reddito professionale da assoggettare a tassazione ordinaria (ai sensi dell’articolo 54 del TUIR) ai fini IVA, in considerazione del fatto che il professionista cedente è obbligato ad emettere regolari parcelle per tutte le rate incassate (soggette ad Iva, ritenuta d’acconto e cassa di previdenza se applicabile).

Pertanto, anche se il professionista intende cessare l’attività deve mantenere aperto il numero di partita IVA fino all’incasso dell’ultima rata.

Su tale argomento è intervenuta l’Amministrazione Finanziaria (Cfr. 20 agosto 2009, n. 232/E) con la quale ha chiarito che “la cessazione dell’attività per il professionista non coincide … con il momento in cui egli si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello, successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali. Fino al momento in cui il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile (perché, ad esempio, non è decorso il termine di prescrizione di cui all’art. 2956, comma 1, n. 2 del Codice civile) l’attività professionale non può ritenersi cessata”.

Tale orientamento è stato ribadito, sempre dall’Amministrazione Finanziaria, nella risoluzione dell’11 marzo 2019, n. 34/E con la quale chiarisce che “in presenza di fatture da incassare o prestazioni da fatturare, gli eredi non possono chiudere la partita IVA del professionista defunto sino a quando non viene incassata l’ultima parcella”, salvo anticipare la fatturazione delle prestazioni rese dal de cuius”.

Su tale argomento, infine, è molto interessante la recentissima risposta n. 785 del 19/11/2021 dell’Agenzia delle Entrate.

L’amministrazione Finanziaria, nell’argomentare l’orientamento, richiama il contenuto della sentenza a SSUU n. 8059 del 21 aprile 2016 con la quale la Corte di Cassazione ha affermato che “il compenso di prestazione professionale è imponibile ai fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”; e questo perché “[…] il fatto generatore del tributo IVA e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati […] con la materiale esecuzione della prestazione, giacché, in doverosa aderenza alla Pagina 3 di 4 disciplina Europea, la previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, va intesa nel senso che, con il conseguimento del compenso, coincide, non l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità ed estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione.”.

Pertanto, considerato che il fatto generatore del tributo IVA e, dunque, l’insorgenza della relativa imponibilità va identificato con la materiale esecuzione della prestazione, né consegue che qualora il de cuius non abbia fatturato la prestazione, l’obbligo si trasferisce agli eredi, in forza del disposto dell’art. 35-bis d.P.R. n. 633 del 1972 che, ovviamente, dovranno fatturare la prestazione eseguita dal de cuius non già in nome proprio, ma in nome del de cuius.

Di conseguenza, gli eredi del professionista deceduto, dovranno chiedere la riapertura della partita IVA del de cuius e fatturare le prestazioni dallo stesso effettuate sia nei confronti dei titolari di partita IVA che nei confronti dei clienti non soggetti passivi ai fini IVA.