Nell’ordinamento giuridico italiano è stato ampiamente dibattuto il tema della liceità delle operazioni di trasferimento a titolo oneroso degli studi professionali, con specifico riferimento alla cessione della clientela.
Solo con il Decreto Bersani-Visco (D.L. 223/2006, art. 36, c. 29) è stata regolamentata, per la prima volta, la fattispecie in questione di ‘cessione della clientela’. Il Decreto, infatti, modificando l’art. 54, c.1-quater del TUIR, ha previsto espressamente che “concorrono a formare il reddito (di lavoro autonomo) i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”.
Nella medesima direzione, anche la Cassazione, con Sentenza n. 2860/2010, ha riconosciuto possibile e lecita la cessione dello studio professionale, e della relativa clientela, che avviene a fronte del pagamento di un corrispettivo.
Le motivazioni della pronuncia si riconducono essenzialmente al disposto normativo del Decreto Bersani-Visco del 2006 e, secondariamente, all’orientamento giurisprudenziale passato che ha riconosciuto l’organizzazione in forma di azienda anche agli studi professionali (Cass. n. 11896/2002; Cass. n. 10178/2007).
Nello specifico, la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui “è lecitamente e validamente stipulato il contratto di trasferimento a titolo oneroso di uno studio professionale, comprensivo non solo di elementi materiali e arredi, ma anche della clientela, essendo configurabile, con riferimento a quest’ultima, non una cessione in senso tecnico (attesi il carattere personale e fiduciario del rapporto tra prestatore d’opera intellettuale e cliente e la necessità, quindi, del conferimento di un nuovo incarico dal cliente al cessionario) ma un complessivo impegno del cedente volto a favorire – attraverso l’assunzione di obblighi positivi di fare e negativi di non fare – la prosecuzione del rapporto professionale tra i vecchi clienti ed il soggetto subentrante”.
In tal senso, anche parte di giurisprudenza datata ha pronunciato la validità del contratto di cessione degli studi professionali, riconoscendo, inoltre, l’esistenza del c.d. avviamento professionale (Cass. n. 370/1974; Cass. n. 5848/1979).
Attualmente, dunque, per quel che riguarda la liceità delle operazioni di cessione degli studi professionali, l’impostazione appare chiara e senza alcuna possibilità di interpretazione, mentre nel passato, mancando il riferimento normativo del D.L. 223/2006 e a causa della non definita linea di demarcazione tra attività professionale e attività imprenditoriale, si sono susseguite una serie di pronunce giurisprudenziali contrastanti con l’orientamento della sentenza n. 2860/2010.
Fra le più datate, ad esempio, la Cassazione ha affermato che nello studio professionale quello che conta e prevale è l’opera intellettuale del titolare e che l’attività professionale rimane inevitabilmente ‘personale’ così mancando il carattere dell’organizzazione imprenditoriale e non determinando la costituzione di azienda in senso tecnico (Cass. n. 3495/1954; Cass. SS.UU. n. 1889/1967; Cass. n. 899/1979). A supporto di tali posizioni, anche gran parte della dottrina ha sostenuto che, se l’attività personale dell’uomo conserva un rilievo determinante, il contraente che fruisce della prestazione professionale caratterizzante può recedere in qualunque momento, senza alcun onere a suo carico, per il semplice venir meno del rapporto fiduciario cliente-professionista.
Nella medesima direzione troviamo alcuni riferimenti attuali che confermano una netta linea di separazione tra attività professionale e imprenditoriale (si veda, ad esempio l’art. 2238, c. 1, Cod.Civ., il quale sostiene che “se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II”).
E’ pur vero, allo stesso tempo, che altre norme attuali la attenuano; a titolo di esempio, si consideri il secondo comma dell’articolo 2238 Cod.Civ., il quale, rinviando alle disposizioni per l’impresa qualora “l’esercente una professione intellettuale impieghi sostituti o ausiliari”, ammette indirettamente il trasferimento di uno studio professionale, come anche l’art. 33 del Codice del Consumo (che sostituisce l’art. 1469-bis Cod.Civ.), il quale, sotto il profilo delle clausole vessatorie, accosta l’attività imprenditoriale a quella professionale.