La Corte di Cassazione torna sul Tema dell’abuso di Diritto

Molto spesso per svolgere l’attività di acquisizione, analisi ed elaborazione dati il professionista si avvale di una struttura costituita sotto forma societaria. In questo caso la cessione dello studio professionale può realizzarsi sia mediante un contratto di cessione di azienda o di ramo d’azienda (oggetto di ulteriori approfondimenti) sia attraverso la cessione di partecipazioni.

Un’operazione di cessione di quote di uno studio commercialista (consulente del lavoro, tributarista, etc.) consiste nel trasferimento di proprietà di una partecipazione che si possiede all’interno di una società e può trovare applicazione per tutte le professioni, con le eventuali limitazioni previste dalle normative vigenti, per le quali è data la possibilità di svolgimento sotto forma societaria.

Per tale tipo di operazione le parti si interrogano sulla possibile riqualificazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria del contratto di cessione quote in una cessione di azienda\ramo d’azienda. Tali dubbi hanno origine dal contenuto dell’atto in quanto esso comprende tutta una serie di clausole quali l’affiancamento, la non concorrenza, l’adeguamento del fatturato, solitamente non presenti negli atti di cessione di quote ma tipiche degli atti di cessione di studio di commercialista (o di altri professionisti).

A parere dello scrivente tali preoccupazioni appaiono ingiustificate se si considera il quadro normativo, giurisprudenziale e la prassi italiana.

Ad oggi l’articolo 37-bis del DPR 600/1973, in materia di accertamento delle imposte dirette, consente all’Amministrazione finanziaria, nell’ambito delle imposte dirette, di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro se privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e diretti ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.
Dunque, in considerazione di quanto sopra esposto, si ritiene che in sede di cessione di uno studio di commercialista, qualora fosse organizzato sotto forma societaria, la conseguente cessione di partecipazioni possa configurarsi elusiva soltanto nei casi in cui realizzi, in assenza di valide ragioni economiche, un atto preparatorio o successivo rispetto ad una più complessa operazione di riorganizzazione aziendale (es. trasformazione, scissione, fusione, conferimento, etc.).

Il 13 luglio u.s., con la sentenza n. 18633, la Corte di Cassazione è tornata sul delicato e sempre controverso tema dell’abuso del diritto

La controversia trova origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento relativo ad IRES 2006 nei confronti di una S.p.A (nella veste di consolidata) in relazione al reddito complessivo globale risultante dalla dichiarazione “Consolidato nazionale e mondiale 2007”. L’Amministrazione Finanziaria ha disconosciuto, ai sensi dell’art.37 bis d.p.r. 600/73, la deducibilità degli interessi passivi, derivanti da un finanziamento infragruppo, in quanto operazione considerata elusiva (per leggere il testo integrale della sentenza accedi al seguente link: .

La Commissione Tributaria Provinciale accoglie il ricorso della Società e la decisione, appellata dall’Agenzia delle Entrate, è stata integralmente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale. L’Amministrazione ricorre ai Giudici di merito.

In particolare, secondo il Giudice di appello, l’intera operazione era sostenuta da valide ragioni economiche quali, tra le altre, l’eliminazione dal mercato nazionale di uno dei maggiori concorrenti, senza indebito risparmio d’imposta.

A tal proposito la Suprema Corte chiarisce che “in relazione all’istituto dell’abuso del diritto di elaborazione comunitaria e successivamente accolto anche dall’ordinamento statale (in relazione alle imposte sui redditi ex art.37 bis d.p.r. n.600/1973) va rilevato che, sulla scia della pronuncia delle Sezioni Unite n. 30055 del 23/12/2008, è, ormai, consolidato l’orientamento di questa Corte nel senso di ritenere che l’operazione economica che abbia quale suo elemento (non necessariamente unico, ma comunque) predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco costituisce condotta abusiva, ed è, pertanto, vietata allorquando non possa spiegarsi altrimenti (o, in ogni caso, in modo non marginale) che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (cfr. tra le altre e di recente Cass.n.5090 del 28.2.2017 la quale ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come abusiva, perché diretta unicamente ad ottenere un risparmio d’imposta, un’operazione con la quale una banca aveva stipulato un contratto di capitalizzazione per un’ingente somma di denaro con un istituto di credito appartenente al medesimo gruppo bancario e, per finanziarlo, aveva contratto, il giorno precedente, un prestito di pari importo con la società capogruppo, ma con interessi passivi più alti ed interamente dedotti dai redditi).”

Pertanto, per la Corte di Cassazione gli indici sintomatici ai quali occorre attingere per la dimostrazione dell’abusività della condotta devono essere “ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica dell’operazione, nel senso che, data la peculiare situazione economico patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societaria del soggetto, rilevate ex ante rispetto alla operazione economica da compiere, detto limite è rispettato se la modifica di tale situazione  non va riferito alla validità legale dei negozi giuridici posti in essere, bensì alla loro apprezzabilità economica gestionale.”

A seguito di tale ricostruzione la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente.