Il trasferimento dello Studio e il patto di non concorrenza

In assenza di normativa specifica, è toccato alla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2860 del 2010, enucleare il contenuto minimo e necessario del contratto, atipico, avente ad oggetto il trasferimento di uno Studio professionale.

Le operazioni di M&A di Studi ed attività professionali, secondo gli Eremellini, di fondano su

l’assunzione di obblighi positivi di fare (mediante un’attività promozionale di presentazione e di canalizzazione) e negativi di non fare (quale il divieto di riprendere ad esercitare la medesima attività nello stesso luogo).

Obblighi, ovviamente, gravanti sul cedente.

Pertanto, dopo aver analizzato nel menzionato articolo del 9 aprile, l’attività di presentazione e canalizzazione della clientela, occorre ora soffermarsi sul divieto di concorrenza.

Nel nostro ordinamento la disciplina generale del patto di non concorrenza è dettata dall’ art. 2596 c.c., ai sensi del quale

Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.

In caso di cessione dello Studio, generalmente il professionista cedente viene contrattualmente obbligato a non esercitare più l’attività professionale oggetto del trasferimento per un periodo fino a cinque anni e in un’area geografica, più o meno estesa in relazione alle caratteristiche della clientela dello Studio ceduto.

Può essere comunque fatta salva la possibilità che il cedente continui a svolgere la propria professione in ambiti e con modalità che nel concreto non pregiudichino la canalizzazione della clientela a favore del subentrante: ad es. un commercialista che canalizza la propria attività di consulenza contabile-fiscale, potrebbe continuare a ricoprire incarichi di revisore, amministratore, consulente tecnico dell’autorità di giudiziaria.

Ci si pone a questo punto una domanda: cinque anni dopo aver canalizzato la clientela a favore del cessionario, il cedente potrebbe tornare a proporsi ai suoi “vecchi” ex clienti?

Stando al tenore letterale dell’art. 2596 c.c.  disposizione sopra citate, sembrerebbe di sì. 

La risposta affermativa suona comunque paradossale ed in netto contrasto con la ratio stessa dell’attività di canalizzazione. Nel contratto di cessione dello Studio, infatti, il cedente si obbliga a presentare, uno per uno ed in via esclusiva, al subentrante un numero preciso di clienti, elencati in un prospetto nominativo al contratto stesso, ponendo in essere una serie di attività finalizzate a consentire al cessionario la possibilità di costituire con i clienti medesimi un nuovo rapporto fiduciario. La suddetta attività di presentazione/canalizzazione costituisce l’obbligazione fondamentale dell’operazione.

Si ritiene quindi corretto sostenere che l’obbligo di non concorrenza in relazione ai clienti nominativamente elencati trovi la propria fonte nella causa stessa del contratto di cessione dello Studio e non possa essere soggetto ad alcuna limitazione temporale. In altri termini, nella presentazione/canalizzazione è implicito il divieto di un futuro sviamento.

Pertanto, il divieto di concorrenza nei confronti dei clienti presentati deve essere inteso come valevole in via definitiva.

Nella prassi, inoltre, molte operazioni di M&A di Studi ed attività professionali si concretizzano non tanto con una mera cessione dello Studio, ma piuttosto con un’aggregazione fra i professionisti e fra le strutture di cui sono titolari. Si considerino ad esempio le seguenti ipotesi, tutt’altro che infrequenti: 

1) il cedente, successivamente al periodo di presentazione/affiancamento o contestualmente al medesimo, inizia un rapporto di collaborazione, a vario titolo, con il cessionario (direttore di studio, consulente specialistico, consulente strategico..etc..);

2) il cedente conferisce il proprio Studio in una struttura più grande, rimanendo all’interno della medesima a titolo di partner.

Orbene, in tutte queste ipotesi (ed in altre analoghe), il cedente, pur continuando a svolgere la propria professione, non è un concorrente del cessionario. Anzi, il fatto che il cedente continui ad esercitare, nel quadro di un accordo di collaborazione o di partnership, con il cessionario costituisce, indubbiamente, un valore aggiunto per entrambi i professionisti coinvolti.

Il cedente, ormai slegato dalle incombenze asfissianti della gestione del proprio Studio, potrà ottimizzare il proprio tempo e dedicarsi ai settori nei quali meglio esplica la propria professionalità, aiutando nel contempo il cessionario a gestire le relazioni con la clientela.

Il cessionario, dal canto suo, sarà indubbiamente agevolato a fare un ulteriore “salto di qualità” perché potrà contare sul proprio nuovo partner/collaboratore: sulla sua maturata esperienza e specifica preparazione settoriale, nonché sulla sua consolidata rete di relazioni sul territorio, che non si esaurisce, ovviamente, nel solo elenco dei clienti presentati, ma che è senza dubbio una solidissima base per raggiungere sempre nuovi clienti.

Sulla base di ciò si può concludere che il divieto di concorrenza a carico del cedente, sebbene vada necessariamente contrattualizzato, costituisca un “falso problema” nell’ambito della prassi sviluppatasi per le operazioni di cessione/aggregazione di studi professionali.

I commenti sono chiusi.