La STP (o CED) e la cessione di elementi immateriali

Ascolta il Podcast sulla tua piattaforma preferita!

Nella prassi italiana molto spesso il commercialista o il consulente del lavoro, ai fini dello svolgimento della loro attività, si avvale anche del supporto di una società di servizi (c.d. CED), a cui delegare generalmente le prestazioni di raccolta ed elaborazione dati rispettivamente in materia contabile e giuslavoristica.

La società di servizi sarà intestataria, integralmente o parzialmente, della titolarità dei rapporti e dei beni funzionali all’esercizio dell’attività: dipendenti, locazione o proprietà dell’immobile, attrezzature, utenze etc..

Secondo il modello tradizionalmente vigente, il CED/società di servizi, che svolge l’attività di registrazione/conservazione dei dati, è affiancato al professionista (individuale/Studio Associato/STP) che tiene i rapporti con la clientela dello Studio e si occupa della consulenza e di tutte le altre attività c.d. “riservate”.

Si evidenzia, inoltre, che nel corso degli ultimi anni si sono costituite numerose Società tra Professionisti beneficiando della Legge 183/2011, il cui art. 10, al comma 3, dispone che

 consentita la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del Codice Civile.

Il dato normativo richiamato prevede quindi che solo i professionisti iscritti ad un ordine professionale possano dar vita ad una delle seguenti società:

  1. Società di persone;
  2. Società di capitali;
  3. Cooperativa (costituite da un numero di soci non inferiore a tre).

Va comunque considerato che la principale peculiarità della STP rispetto ad altre forme di aggregazioni tra professionisti è quella di una parziale, limitata apertura del mondo delle professioni all’ingresso di capitali proveniente da soggetti terzi, non professionisti.

In un tale contesto l’operazione di cessione/aggregazione dell’attività potrebbe avvenire anche attraverso la stipula di un contratto di trasferimento dell’azienda/cessione delle quote della società.

Ma cosa accade se una STP o un CED cede solo una parte dell’attività?

Più precisamente, cosa accade se, ad esempio, una STP cede solo il diritto all’utilizzo del marchio?

Può tale operazione essere ricondotta da parte dell’amministrazione finanziaria ad una cessione d’azienda/ramo d’azienda?

Su tale argomento è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9065 del 01/04/2021, che ha definitivamente chiarito tutti i dubbi.

Il tutto ha origine dalla stipula di contratti tra società, indipendenti tra di loro, aventi ad oggetto la cessione di diritti di proprietà intellettuale (ma non solo) e per i quali i contribuenti avevano liquidato e versato la relativa IVA (e non l’imposta di registro non avendo proceduto alla registrazione degli stessi).

In relazione a tali cessioni, invece, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che tali operazioni dovessero essere considerate, sotto il profilo fiscale, quale cessione di ramo di azienda. Per tale motivo l’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla registrazione d’ufficio dei contratti, richiesto il versamento dell’imposta di registro e irrogato le relative sanzioni.

Nonostante la Commissione Provinciale aveva accolto i ricorsi delle contribuenti evidenziando, inoltre, la non riconducibilità delle operazioni ad una cessione di azienda stante l’impossibilità di individuare nell’oggetto delle cessioni, sia pur complessivamente considerato, un insieme di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, il Giudice d’appello ha accolto il gravame dell’Amministrazione finanziaria ritenendo che l’oggetto della cessione dei suindicati contratti configurava, nel suo insieme, un ramo di azienda, in quanto comprensivo di beni materiali e immateriali, informazioni e conoscenze e facoltà di stipulare rapporti contrattuali funzionali allo sfruttamento commerciale di un marchio aziendale.

Sulla base delle memorie depositate dalle contribuenti la Suprema Corte afferma che

Occorre rilevare che l’art. 20, d.P.R. n. 131 del 1986, prevede, nella versione applicabile al caso in esame ratione temporis, che «L’imposta (di registro) è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.

Tale disposizione è stata costantemente interpretata nel senso che, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, essa attribuisce prevalenza alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente, vincolando l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale dell’effettiva causa concreta dell’operazione economica rispetto al tipo negoziale cui le parti hanno fatto ricorso e che, a tal fine, i concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria ed è possibile valutare circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati (cfr. Cass. 30 maggio 2018, n. 13610; Cass., ord., 20 marzo 2018, n. 7637; Cass., ord., 28 dicembre 2017, n. 31069).

Come già precedentemente accennato in questa fase la Commissione Regionale ha condiviso la tesi dell’Ufficio secondo la quale gli atti dessero luogo ad un’operazione di cessione di un complesso aziendale, ritenendo che gli oggetti di tali atti, unitariamente valutati, costituissero un ramo di azienda.

Su tale passaggio occorre evidenziare che la Suprema Corte ha rilevato che “Risulta, dunque, evidente che la Commissione regionale non ha fatto corretta applicazione dell’art. 20, d.P.R. n. 131 del 1986, così come interpretato alla luce della norma di interpretazione autentica introdotta con l’art. 1, comma 87, lettera a), poiché ha ritenuto applicabile l’imposta di registro a singoli atti i quali, unitariamente considerati, presentavano natura di atti traslativi i cui effetti consistevano nella cessione di beni e/o diritti, attribuendo rilevanza decisiva, ai fini dell’accertamento della contestata cessione di azienda, ad elementi extratestuali, rivenuti nei diversi atti in oggetto, sul presupposto di un loro collegamento negoziale o, comunque, di una loro preordinazione alla realizzazione di un risultato economico unitario”.

Infine, la Corte di Cassazione, richiamando il contenuto dell’art. 1, comma 87, lett. a), ribadisce che «non rilevano quindi più … gli elementi evincibili da atti eventualmente collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali».

Nel motivare la decisione la Suprema Corte evidenzia che “«La norma in esame [ossia, quella di interpretazione autentica] è volta a definire la portata della previsione di cui all’articolo 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare. Non rilevano, inoltre, per la corretta tassazione dell’atto, gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)»

Pertanto, alla luce del disposto della Suprema Corte il contratto di cessione, da parte di una STP, dei diritti d’immagine, o anche di altri elementi immateriali, non può essere considerato quale cessione d’azienda/ramo d’azienda con la conseguenza dell’assoggettabilità dei corrispettivi ad IVA e non ad imposta di registro.