Forma giuridica, dimensione e redditività, un’analisi sugli studi di Commercialisti

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È stato da poco reso disponibile il Rapporto 2021 sull’Albo dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. Nel Rapporto, oltre all’usuale aggiornamento sulle statistiche dell’Albo, vi è un interessante passaggio sulla necessità di aggregarsi, necessità che è posta direttamente in relazione con la redditività degli studi:

Come è noto, il tasso di aggregazione tra i Commercialisti è ancora troppo basso, nonostante i dati delle Casse di previdenza mostrino una redditività nettamente superiore dei professionisti che operano in forma associata o societaria.”.

Questo concetto è stato integrato con alcuni dati della Cassa nel documento “Il processo di aggregazione e la digitalizzazione negli studi professionali”, prodotto congiuntamente da CNDCEC e Fondazione Nazionale Commercialisti, di cui si riporta l’estratto:

Infatti, nonostante le migliori performance economiche dello studio associato e della STP, solo un commercialista su 5 è associato. Ciò è avvalorato dai dati forniti dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Dottori Commercialisti, ad esempio, chi esercita la professione in forma associata o societaria (totale o parziale) ha un reddito medio pari a ben 125 mila euro (volume d’affari 245 mila euro) contro i 49 mila euro di chi esercita esclusivamente in forma individuale (volume d’affari 80 mila euro).

Sembrerebbe quindi che la forma giuridica abbia effetto sul reddito del professionista. Ovviamente non può però essere solo la forma giuridica a determinare il reddito di uno studio, vi deve essere un’altra motivazione se i Commercialisti “associati” hanno un maggior reddito di quelli “individuali”. Una motivazione, più “economica”, è suggerita da un successivo passaggio dello stesso documento:

La scarsa propensione all’aggregazione si riflette, naturalmente, nella ridotta dimensione degli studi. Sebbene non si possano escludere studi individuali grandi, è evidente come la dimensione dipenda fortemente dal grado di aggregazione. Gli studi con più di 5 addetti, infatti, sono il 73,4% tra quelli associati e il 14,8% tra quelli individuali.”.

Quindi, si potrebbe avanzare nel ragionamento ed affermare che è in realtà la dimensione di uno studio, e non la sua forma giuridica, a determinarne il reddito. Essendo poi gli studi aggregati tendenzialmente più grandi di quelli individuali, si spiegherebbe perché abbiano un maggior reddito.

In questo caso, però, i due documenti non ci forniscono dati in merito.

Da quanto sopra emergono quindi 2 interessanti quesiti:

  1. Uno studio ha un maggior reddito solo perché esercitato in forma associata/societaria oppure perché è di dimensioni maggiori? E quali sono le “giuste” dimensioni per uno studio?
  2. I Commercialisti “individuali” hanno davvero una redditività (non un reddito) superiore a quella dei Commercialisti “associati”, alla faccia di economie di scala, maggiori investimenti in digitalizzazione, organizzazione ecc.? Perché dai dati di cui sopra avremmo 61% per gli studi individuali (49 mila/80 mila), contro 51% per quelli associati/aggregati (125 mila/245 mila).

 

In questo articolo si cercherà di rispondere ai due quesiti, integrando i dati con un’analisi empirica parallela, sviluppata su un campione di studi fornito da MpO&Partners, società specializzata nel M&A di studi professionali.

Il campione è costituito da 140 studi di Commercialisti e Consulenti del Lavoro, impegnati in operazioni di aggregazione/M&A. Questo campione, seppur numericamente molto più ridotto di quello alla base dei documenti di cui sopra, ha 3 vantaggi:

  • È possibile osservare tutti i dati, e non ragionare sulla base di valori medi. In particolare, la media aritmetica è poco robusta come indicatore statistico, in quanto risente pesantemente dei valori estremi (ad es. la media di 1, 2, 3, 4, 5 e 30, è pari a 7,5, che è però superiore a ben 5 osservazioni sulle 6 osservate). Questo potrebbe avere un notevole impatto nel fenomeno che stiamo osservando, perché il reddito non oscilla tra “meno infinito” e “più infinito”, ma tendenzialmente tra valori prossimi allo zero e valori molto elevati. Quindi sarebbero sufficienti pochi studi di grandi dimensioni per rendere i numeri della Cassa sovrastimanti i redditi del professionista medio (come nell’esempio numerico).
  • Ci sono meno studi ma molte più informazioni per ciascun studio. Si è potuto, ad esempio, normalizzare i conti economici su cui calcolare reddito e redditività, rimuovendo i costi promiscui (potenzialmente più rilevanti in uno studio individuale che in uno associato). Si è potuto anche prevedere i costi impliciti dei Dominus/Associati, parametro estremamente rilevante ai fini di questa analisi (ad es. se uno studio individuale con 2 dipendenti più il Dominus si trasformasse in studio associato con 3 associati, si avrebbe un margine molto più alto solo perché le 2 risorse passerebbero da costo a conto economico a soci che partecipano agli utili).
  • Le informazioni sono state raccolte con una finalità diversa (non andranno a costituire una base imponibile ma un corrispettivo da percepire in caso di cessione).

 

Procediamo dunque con l’analisi.

Con riferimento al primo quesito, quindi se è la dimensione di uno studio piuttosto che la sua forma di esercizio a determinarne il reddito, l’ipotesi trova conferma nel campione analizzato, come illustrato dal grafico sottostante: salvo i due studi di più grandi dimensioni, che possiamo definire outliers, vi è una correlazione molto forte tra la dimensione di uno studio (fatturato) e il reddito (EBITDA) che riesce a produrre. La forma giuridica appare invece ininfluente, altrimenti vedremmo dei cluster, dei raggruppamenti separati di punti solo blu e punti solo arancio in diverse aree del grafico.

Quindi, si può affermare che è l’aumentare dei volumi che incrementa anche il reddito degli studi, indipendentemente dalla forma giuridica assunta.

Il risultato, tuttavia, non è stupefacente: ci si può attendere che entità più grandi abbiano anche margini (in valore assoluto) più grandi, anche se non è scontato. Può quindi essere interessante addentrarsi nell’analisi cambiando prospettiva e analizzando la redditività, e non il reddito, degli studi: guardare quindi a quanto uno studio sia redditizio per ogni euro di fatturato ed indagare se vi è un legame tra quella redditività e la dimensione dello studio.

Procederemo quindi non considerando più l’EBITDA come valore assoluto, ma considerando l’EBITDA%, ovvero il rapporto EBITDA/fatturato.

Guardando ai dati nel campione, i punti sono “sparsi” nell’area del grafico e sembrerebbe non esserci alcuna relazione tra la redditività e la dimensione di uno studio. Sembrerebbe, invece, esserci una relazione con la forma giuridica: gli studi individuali (in arancione) sono quelli che presentano le redditività più elevate nel campione, come anticipato dai risultati dei documenti di cui sopra.

Tuttavia, l’analisi così condotta non è completa. Si ricorderanno le c.d. “valutazioni di convenienza economica”, per cui se l’azienda genera 80k€ di utile, ma l’imprenditore potrebbe guadagnare 100k€ facendo l’amministratore di un’altra azienda, questo non ha alcuna convenienza nel proseguire la propria impresa.

Occorre quindi considerare che, al pari degli altri fattori produttivi, anche l’attività del Dominus ha un costo, seppur implicito. È vero che il Dominus non ha un vero e proprio stipendio, il suo compenso è rappresentato dal margine di utile che riesce a realizzare. Nondimeno quel margine deve essere sufficiente a “coprire” il costo del suo lavoro, altrimenti quel margine è solo “virtuale”, e può invece nascondere una perdita in termini reali.

Per questa ragione abbiamo ipotizzato di inserire un compenso di 48.000€/annui lordi come costo implicito del Dominus. Il compenso non è elevato, tenendo conto che parliamo di circa 2.000€/mese netti e che deve ricomprendere anche l’operatività “manageriale” del Dominus, in quanto oltre ad essere professionista deve anche gestire lo studio. Sarebbe stato ragionevole ipotizzare un costo anche più elevato rispetto ai 48.000€, ma si è ritenuto preferibile sviluppare l’analisi sulla base di un importo più basso ma meno contestabile. In ogni caso, con una previsione di costo più elevato i risultati di cui sotto sarebbero ancora più accentuati. (Altre alternative di calcolo, come una % del fatturato non avrebbero senso, sia quando lo studio è molto piccolo, sia quando è molto grande).

Inserendo nei dati del campione il compenso del Dominus sopra ipotizzato, la situazione cambia drasticamente:

Questa volta sembra esservi una relazione positiva tra la redditività degli studi e la loro dimensione: maggiori sono i volumi, maggiore è il margine realizzato per ogni euro di fatturato (ovviamente non all’infinito). E non vi sono differenze dettate dalla forma giuridica: le 10 redditività più elevate sono equamente suddivise tra 5 studi individuali e 5 studi associati/aggregati.

 

Dal grafico è altrettanto evidente, però, come i piccoli studi individuali in realtà siano spesso in perdita se si considera il compenso del Dominus, ed è facilmente intuibile: se lo studio fattura 100 mila euro o meno, pagando software, spese generali, affitto e 1 dipendente, difficilmente possono residuare i 48.000€ che ripagano il Dominus per il suo tempo ed impegno. (E la soluzione non può neanche essere quella di lavorare, da soli, 14 ore al giorno, in perfetta efficienza, perché sì, si avrebbero meno costi, ma a quel punto il costo implicito sarebbe in realtà molto più elevato.)

In sintesi, dall’analisi sul campione emerge come:

  • Al di sotto dei 100.000€ di fatturato è quasi impossibile che un Dominus riesca a ripagarsi interamente per il proprio lavoro. È come se si sacrificasse pur di “mandare avanti” lo studio. La gran parte degli studi in questa situazione, nel campione, è rappresentata da studi individuali.
  • Solo al di sopra dei 150.000€ di fatturato si inizia a soddisfare il costo implicito del Dominus, mentre per livelli di fatturato più elevati, oltre a ripagare il lavoro svolto, lo studio è in condizioni di produrre anche un vero e proprio margine. Oltre i 500.000€ di fatturato non vi sono studi con redditività scarse, e la gran parte di questi studi è esercitata in forma associata/societaria.

 

Questi risultati del campione MpO sono confermati anche dai dati stessi che fornisce la Cassa, solo i margini riportati (125 mila e 49 mila) non consideravano il costo implicito del Dominus. Se si considera il costo che abbiamo ipotizzato, il margine medio degli studi individuali sarebbe praticamente azzerato (49k€ – 48k€ = 1k€). Tenendo poi conto delle limitazioni, sopra descritte, che ha la media nel descrivere questo fenomeno, è possibile che quei 49 mila euro non siano neppure raggiunti dalla gran parte degli studi individuali. Considerando, infine, sempre dai documenti di cui sopra, che questa è la condizione “tipica” in cui si ritrovano 4 commercialisti su 5, si rappresenta una situazione drammatica per l’intera categoria.

La soluzione a questo problema, anche prospettata dagli stessi Consiglio e Fondazione, è l’aggregazione: aggregandosi si possono raggiungere i volumi che permettono di esercitare la professione in modo profittevole.