STP: Producono sempre Reddito d’Impresa?

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“… il processo di aggregazione … costituisce un passaggio quasi obbligato per gli studi professionali che vogliono prontamente rispondere al cambiamento dell’ambiente. Il cliente, sempre più esigente, richiede servizi sempre più specializzati e non sempre un singolo professionista … è in grado di offrire risposte compiute e mirate.

La sfida all’aggregazione professionale, come leva strategica competitiva di successo, tesa a trovare nuovi business e/o a consolidare quelli esistenti, richiede sicuramente un diverso atteggiamento al cambiamento; un atteggiamento di tipo proattivo, volto a cogliere tutte le opportunità, alimentando un percorso di crescita dello studio professionale.”.

Queste sono le conclusioni alle quali giunge lo studio della Fondazione nazionale dei commercialisti sul “Processo di aggregazione e la digitalizzazione negli studi professionali”.

Abbiamo già avuto modo di evidenziare che la propensione del professionista ad esercitare individualmente la sua attività sta riscontrando sempre maggiori ostacoli. Tutto ciò si traduce in una spinta alle aggregazioni tra professionisti (fortemente penalizzata dalla normativa fiscale vigente così come già evidenziato in un nostro contributo) per costituire nuove entità giuridiche come, ad esempio, una Società tra Professionisti.

Come è ben noto la legge istitutiva delle Società tra Professionisti “STP” è la Legge 183/2011, il cui art. 10, al comma 3, dispone che “È consentita la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del Codice Civile.”

Il dato normativo richiamato prevede quindi che solo i professionisti iscritti ad un ordine professionale possano dar vita ad una delle seguenti società:

  1. Società di persone;
  2. Società di capitali;
  3. Cooperativa (costituite da un numero di soci non inferiore a tre).

 

Ai fini fiscali e dell’inquadramento dei redditi prodotti da tali società, dopo copiosa e contrastante dottrina e giurisprudenza, è intervenuta l’Amministrazione Finanziaria (cfr. anche le risoluzioni 107 e 125 del dicembre 2018), la quale ha precisato che il reddito prodotto dalle STP è da considerarsi reddito d’impresa così come previsto dagli articoli 6, comma 3 e 81 del T.U.I.R. con la conseguente applicazione del principio di competenza e non quello di cassa (tipico delle attività professionali).

 

Questione chiusa? Sembrerebbe di no!

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 7407/2021) ritorna sull’argomento relativo alla classificazione dei redditi prodotti dalla Società tra Professionisti.

Il tutto ha origine dalla richiesta di uno studio legale (organizzato sotto forma di S.t.p.r.l.) di restituzione della somma trattenuta da un cliente (una compagnia assicurativa per la quale lo studio aveva seguito una transazione) a titolo di ritenuta d’acconto.

Lo studio legale fonda la sua richiesta in considerazione del fatto che per il “principio di attrazione” il reddito della s.t.p.r.l. deve considerarsi quale reddito di impresa da non assoggettare, quindi, a ritenuta d’acconto.

Entrambe i gradi di giudizio vedono lo studio soccombente in quanto affermano che “al reddito prodotto dallo studio legale, ancorché lo stesso fosse costituito in forma societaria, si applichi la disciplina di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917” la quale prevede che “le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici, ma l’atto o la scrittura di cui al comma 2 può essere redatto fino alla presentazione della dichiarazione dei redditi dell’associazione”

I Giudici arrivano a tale conclusione in considerazione del fatto che il lavoro autonomo si caratterizza per l’assenza di subordinazione, per la professionalità, l’abitualità e la non imprenditorialità, nel senso che “prevale l’aspetto personale rispetto al capitale”. Pertanto, “la sola costituzione in forma societaria non dimostra il requisito della imprenditorialità”, non essendo stata fornita la prova “del capitale investito e della attività in concreto esercitata per l’appunto in forma societaria”

La Suprema Corte conferma tale orientamento precisando che “la risoluzione della questione in esame debba ricercarsi … prendendo atto sia dell’esistenza di attività caratterizzate, contestualmente, “da personalità della prestazione ed impersonalità della società”, sia della “tendenza alla «commistione» di categorie da sempre considerate distinte”.

Con la conseguenza, quindi, che la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, “capace di spersonalizzare l’attività svolta” – come osservato in dottrina – e “di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista”.

Pertanto, in assenza di una previsione specifica nella disciplina fiscale (di secondo grado) torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (di primo grado) contenuta nell’articolo 2238 cod. civ..

Tale norma nega la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti.

Perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale occorre la presenza di un’attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della personalità (art. 2232 cod. civ.), presupponendo quel profilo di autonoma organizzazione di cui agli artt. 2082 e 2238 cod. civ.

Pertanto, la Corte di cassazione decide per il rigetto del ricorso anche “in difetto di dimostrazione della sussistenza di un’attività diversa e ulteriore, nel caso in esame, rispetto a quella professionale, che permetta di qualificare il reddito della società, nelle cui forme è costituito lo studio professionale odierno ricorrente, come reddito di impresa.”.

Quindi, per la Suprema Corte nel caso specifico il reddito della società è da considerarsi reddito di lavoro autonomo con l’applicazione della ritenuta d’acconto.

A questo punto occorre fare alcune considerazione. La prima cosa da evidenziare, a mio parere, è la parte della sentenza laddove rinvia ad un accertamento “caso per caso” dell’autonomo profilo organizzativo rispetto al lavoro professionale.

Tale orientamento presta il fianco a discrezionalità sia da parte delle STP sia da parte dei propri clienti i quali potrebbero, in autonomia, decidere per la trattenuta della ritenuta d’acconto creando confusione che, di fatto, potrebbe tradursi in un elevato rischio di contenzioso.

Un’altra considerazione è se seguire le indicazioni dell’Amministrazione Finanziaria o a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione e come raccordare il tutto in presenza degli articoli 6 e 81 del T.U.I.R. i quali stabiliscono, senza ombra di dubbio e per presunzione assoluta, che il reddito delle società di persone e di capitali è da considerarsi reddito d’impresa. Tutto ciò dovrebbe valere anche per le STP.

In questo scenario è auspicabile (ed anche urgente) un preciso intervento del legislatore che riesca a superare in maniera chiara e precisa ogni soggettività interpretativa.